Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando avevo 15 anni, ora ne ho venticinque e sono già stanca e amareggiata e stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione. Sì, lo sono anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non veniva nessuno perché “meglio i tornei di calcetto e pallavolo”. Alle manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina di cui abbiamo sentito solo parlare. Poi sono cresciuta ed ho iniziato ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da fare aperitivo.
Al festival di Internazionale ho assistito ad un incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta -che ormai si sente troppo spesso- sortisce come unico effetto quello di assecondare il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo è il vero problema. Ognuno è a testa china sulla propria strada, in mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo e bicchieri di vino. È una grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.
Una persona molto cara a me (laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro all’ora (a nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare qualsiasi cosa avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. “Non andateci”, ho detto ad alcuni amici “non dobbiamo sostenere il nostro sfruttamento”, “mi dispiace, ma la birra lì è buona!”, mi hanno risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento vaucheriano giovanile, “ma non sta sfruttando mica me!”, già. Non oggi, non lì. Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta noi. Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere uno scontro tangibile con questa realtà. La società noi si fa da sola, e in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa. Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. Chi altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia, questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche parte. Sempre che ci interessi.

Percentuale di giovani (15-29 anni) che dichiara di essere ‘molto’ o ‘abbastanza’ interessato alla politica (per Paese, anni 2002 e 2012).
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